Rapporto ISPRA 2014 sul consumo di suolo in Italia

La progressiva espansione delle infrastrutture e delle aree urbanizzate a bassa densità, che comportano un forte incremento delle superfici artificiali e dell’impermeabilizzazione del suolo, sono una realtà sempre più diffusa nel nostro paese. Tali dinamiche insediative non sono giustificate da analoghi aumenti di popolazione e di attività economiche. Il territorio e il paesaggio vengono quotidianamente invasi da nuovi quartieri, ville, seconde case, alberghi, capannoni industriali, magazzini, centri direzionali e commerciali, strade, autostrade, parcheggi, serre, cave e discariche, comportando la perdita di aree agricole e naturali ad alto valore ambientale, con un uso del suolo non sempre adeguatamente governato da strumenti di pianificazione del territorio e da politiche efficaci di gestione del patrimonio naturale. 

La progressiva espansione delle aree urbanizzate e le sempre più diffuse dinamiche insediative dello sprawl urbano comportano una forte accelerazione del processo di impermeabilizzazione del suolo, comunemente chiamato cementificazione.

La cementificazione per l’ultimo triennio ha comportato l’immissione in atmosfera di 21 milioni di tonnellate di CO2, con forti impatti sui cambiamenti climatici, ma non solo. L’aumento del consumo di suolo si traduce anche in una minore capacità dello stesso di ritenere l’acqua, così che negli ultimi tre anni abbiamo perso, per via dell’impermeabilizzazione del terreno, una capacità di ritenzione pari a 270 milioni di tonnellate d’acqua, con tutti i rischi derivanti (vedi le alluvioni) e notevoli costi di gestione (pari a 500 milioni di euro per gli ultimi tre anni). Ma anche l’agricoltura ne risente: perdere suolo significa ridurre la quantità destinata alle coltivazioni e quindi ridurre la capacità di produrre cibo e aumentare così le importazioni.

L’impermeabilizzazione rappresenta la principale causa di degrado del suolo in Europa, in quanto comporta un rischio accresciuto di inondazioni, contribuisce al riscaldamento globale, minaccia la biodiversità, suscita particolare preoccupazione allorché vengono ad essere ricoperti terreni agricoli fertili e aree naturali e seminaturali, contribuisce insieme alla diffusione urbana alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, soprattutto rurale (Antrop, 2004; Pileri e Granata, 2012). È probabilmente l’uso più impattante che si può fare della risorsa suolo poiché ne determina la perdita totale o una compromissione della sua funzionalità tale da limitare/inibire anche il suo insostituibile ruolo nel ciclo degli elementi nutritivi (APAT, 2008; Gardi et al., 2013).

Le funzioni produttive dei suoli sono, pertanto, inevitabilmente perse, così come la loro possibilità di assorbire CO2, di fornire supporto e sostentamento per la componente biotica dell’ecosistema, di garantire la biodiversità o la fruizione sociale.

Nel territorio si incrementa anche la frammentazione degli habitat, con la possibile interruzione dei corridoi migratori per le specie selvatiche (EEA, 2006). Nelle aree urbane il clima diventa più caldo e secco a causa della minore traspirazione vegetale ed evaporazione e delle più ampie superfici con un alto coefficiente di rifrazione del calore. Soprattutto in climi aridi come quello mediterraneo, la perdita di copertura vegetale e la diminuzione dell’evapotraspirazione, in sinergia con il calore prodotto dal condizionamento dell’aria e dal traffico e con l’assorbimento di energia solare da parte di superfici scure in asfalto o calcestruzzo, contribuiscono ai cambiamenti climatici locali, causando l’effetto “isola di calore” (Commissione Europea, 2012b).

L’impermeabilizzazione deve essere, per tali ragioni, intesa come un costo ambientale, risultato di una diffusione indiscriminata delle tipologie artificiali di uso del suolo che porta al degrado delle funzioni ecosistemiche e all’alterazione dell’equilibrio ecologico (Scalenghe e Ajmone Marsan, 2009; Commissione Europea, 2011a). C’è da considerare, inoltre, che l’espansione urbana riguarda spesso i terreni più fertili, ad esempio quelli delle pianure alluvionali, dove maggiore è la perdita di capacità della produzione agricola e dove la rimozione, per la costruzione di edifici o infrastrutture, di suoli agricoli gestibili tramite misure di agricoltura conservativa, ci priva ancora di più del suo potenziale per la fissazione naturale di carbonio, influendo quindi sul clima. Normalmente, la fissazione di carbonio avviene tramite la crescita vegetativa e l’accumulo di materia organica; su scala globale il serbatoio non-fossile di carbonio nel suolo ammonta a circa 1.500 miliardi di tonnellate (più del carbonio contenuto nell’atmosfera e nelle piante sommati assieme) quasi tutte entro il primo metro di suolo (Commissione Europea, 2013).

Rapporto ISPRA_Consumo_di_Suolo_in_Italia_2014.

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